Ho fatto un sogno meraviglioso.
Vivevo in un’Italia in cui non faceva più caldo soffocante o freddo gelido: era una costante e mite primavera dai “mille colori, che danno sapore alle nostre vite”.
Un’Italia in cui non ci si contrapponeva più in modo manicheo – rossi contro neri, sinistra contro destra: archiviati “toni apocalittici e indignazione gratuita”, tutti erano responsabilmente moderati. Non c’erano “leader dello schieramento a noi avverso”: Berlusconi e Veltroni erano fuori dal Parlamento, Verdini e Renzi erano “affiliati”.
Un’Italia in cui non c’era più traccia della (presunta) “superiorità morale della sinistra”, né di dimissioni, né di semplici “voltagabbana”: si cambiava partito per il bene del Paese. E i Casamonica volavano sulla Capitale lanciando petali di rosa.
Un’Italia in cui chiunque poteva diventare presidente del Consiglio, anche chi non veniva eletto. E poi legiferava e cambiava le istituzioni, la legge elettorale, il Senato, la tv pubblica, i servizi segreti… in nome “dell’innovazione contro il conservatorismo” (e il gufismo), facendo riscoprire quei valori imprescindibili che sono l’amicizia personale, la famiglia, l’attaccamento al ruolo (detto volgarmente poltrona) e la sana fedeltà al capo.
Un’Italia finalmente libera dai conflitti d’interesse e dalle etichette “imprenditori-padroni”, “banchieri-truffatori”, “massoni-cospiratori”: fatta solo di tante “persone perbene”, che “accettavano incarichi convinti di poter dare una mano in momenti di difficoltà”, e si spendevano in tutti i modi, facendo riscoprire i valori imprescindibili della “fratellanza” e del sostegno reciproco. E comunque “se avevano sbagliato, pagavano”.
Un’Italia in cui non erano solo i padri ad aiutare i figli, ma anche i figli i babbi. In cui i vecchi non toglievano più il lavoro ai giovani, ma condividevano con loro il tanto tempo libero al bar, giocando allegramente al videopoker. Oppure andavano a comprare una moto in contanti, sognando di essere Valentino Rossi, in sella a una Yamaha e con la residenza fiscale all’estero.
Un’Italia che aveva smesso di piangersi addosso, di contare poveri, disoccupati, pensionati suicidi, e aveva riconquistato ottimismo e coraggio, orgoglio per il proprio passato e fiducia per il futuro. In cui Chiambretti era testimonial della Fiat e Renzi della Ferrari.
Un’Italia in cui i ricchi non venivano più discriminati: anche i loro figli diciottenni ricevevano il bonus di 500 euro e lo Stato finanziava le scuole private. Perché il paese era stato ricostruito dalle fondamenta, dalla scuola: per valorizzare il talento si erano create classi separate, per i bravi e per gli asini (in attesa di quelle per belli e per brutti), e il bullismo era diventato reato penale, con tanto di Daspo dei telefonini e confisca del computer. Dopo la scuola, il lavoro, in cui si entrava e da cui si usciva sempre senza giusta causa, e solo chi era così meritevole da arrivare in cima alle istituzioni poteva permettersi di fare il bullo e twittare tutto il giorno.
Un’Italia in cui Cantone si faceva in 4 (e come ci si divertiva con l’omonimo gioco!) e tutti i cittadini erano felici: con gli 80 euro in tasca, potevano sfrecciare sulle loro Ferrari, con Jovanotti a palla. E se non avevano la patente o quello davanti non scattava al verde e partiva un vaffa, il vigile si scompisciava dalle risate.
Un’Italia primaverile raccontata da giornali colorati, “illuministi e non oscurantisti”, che ci aggiornavano non solo sui grigi richiami dei grigi burocrati di Bruxelles ma anche sulle tante buone notizie, e “accanto alla denuncia provavano a spiegare anche come si potrebbe fare diversamente”. Giornali che lo Stato aiutava con tanti bei piccioli, per nutrire le nostre menti.
Poi mi sono data un pizzicotto per svegliarmi. Un altro. Un altro ancora…
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